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Paradies Glaude (Paradise Faith) - Recensione

01/09/2012 | Recensioni |
Paradies Glaude (Paradise Faith) - Recensione

Concorso - 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Paradies Glaude (Paradise Faith), in concorso all’edizione 2012 Festival di Venezia è un’opera che si colloca nell’ambito di un progetto più ampio, la Trilogia Paradies, il cui primo capitolo (Paradies Love) è stato presentato al Festival di Cannes. Il regista austriaco Ulrich Seidl, in questa sua analisi sulle forme dell’amore, affronta in questa seconda parte la devozione nei confronti della religione cattolica, dei suoi principi e i suoi dogmi. Se nel primo film il paradiso si trova sulla terra e l’amore è una cosa tangibile, in Paradies Glaude le delusioni terrene conducono la protagonista a riversare i propri sentimenti in Gesù, dando vita ad una vera e propria adorazione nei suoi confronti, che va ben al di là della fede e che le fa perdere la capacità di amare chi le sta accanto.
Annamaria, tecnico radiologo, dedica le sue vacanze a opere missionarie in modo tale che l’Austria possa essere ricondotta sulla retta via. Nel suo impegno quotidiano a Vienna, girando di casa in casa, la donna porta con sé una statua di trenta centimetri raffigurante la Madonna. Ma un giorno, dopo anni di assenza, il marito di Annamaria, musulmano egiziano relegato su una sedia a rotelle, ritorna e da quel momento comincerà un calvario personale e di coppia.
La regia di Seidl cerca costantemente di scioccare lo spettatore, talvolta esasperando il tema tratto e sfociando in alcune scelte affrettate e poco funzionali al racconto. Lontano da censure o inibizioni nei confronti di ciò che riprende, il regista tratta l’amore e il sesso con poca convinzione rispetto al precedente lavoro, lasciando un velo di insoddisfazione in chi conosceva già il suo stile. Nonostante la sua durata (circa due ore) il film nel finale da per scontati troppi elementi, risultando frettoloso nelle conclusioni, e dando l’impressione che non ci sia stata una riflessione ben precisa sull’epilogo.

Serena Guidoni
 

 


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